James Fasset, da Monografia di Walter Madoi, 1970

Ritratto di un paese dell’ Appennino parmense
Non ci sono veicoli di alcuna sorta in questo paesetto quassù sugli Appennini, catena di monti che serpeggia verso il Sud nel centro della Penisola come le stringhe su un alto stivale a borchie.  Dovemmo lasciare la macchina nel punto dove la strada entra nel paese.  Non avrebbe mai potuto passare nello stretto pertugio tagliato tra due fila di case coi cadenti muri di pietra. Questa è l’ unica strada del villaggio: via?, strada?, borgo?, carreggiata?, carraia? No, neppure carraia, perché neppure le ruote dei più rustici carri potrebbero mai passarvi: troppe gobbe, troppe pietre a punta aguzza.
Il tempo si è fermato da 500 anni in questo villaggio italiano chiamato Sesta, ed è l’ ultimo paese di cui avremmo potuto pensare di parlare con una conversazione radiofonica. Ma in queste ultime settimane qualcosa di nuovo è accaduto a Sesta, che puo’, dalla sera al mattino, liberarla dalla sua paralisi del tempo e svegliarla dal suo letargo medioevale. E qualcosa è accaduto dentro ad una chiesa, la sola chiesa, piccolissima, in questo paese di appena 64 abitanti.
Bisognerà che vi dica che quasi tutti questi abitanti sono vecchi, o, almeno, vecchi sembrano, anche quando sono di mezza età. Quasi tutti i più giovani, ad uno ad uno, se ne sono andati a cercare “pascoli più verdi”.  E quasi tutti gli altri abitanti se ne vanno dal paese ogni giorno all’ alba, ritornando al crepuscolo, cioè nel momento in cui noi entriamo nel paese. Li guardiamo mentre ritornano dalle montagne con il loro penoso carico di fieno appena tagliato, il risultato di un altro intero giorno di duro lavoro. Nessun veicolo a ruote, dicevamo; i buoi, qualche volta asini, tirano carri a forma di slitta, formati da un tavolato, poggiante su due pali che strisciano sul terreno, e che sostiene un grosso recipiente, fatto di rami intrecciati, pieno fino all’ orlo di erba della montagna.  Servirà per l’ inverno e sembra essere la loro unica forma di guadagno.
Ma dicevamo della chiesa. Queste stesse facce, che vediamo fuori nel paese, sono qui dentro, dipinte sulle quattro pareti, a fresco; la crocefissione – il Cristo sulla croce coi due ladroni ai fianchi – la Madonna ai piedi del Cristo, nella sua espressione di eterno ed universale dolore. Nella parete di fronte sono gli abitanti del villaggio, riuniti a gruppi o inginocchaiti singolarmente, ognuno con la propria espressione di dolore. Le facce sono quelle delle persone che abbiamo visto un momento fa, quando i contadini stavano ritornando dalle montagne con le pecore e con il loro carico di fieno tirato dai buoi.  Alcune le riconosciamo: sono facce logorate dalla fatica e tese, ma con tratti marcati, a volte nobili, sentite, primitive, bibliche.  A somiglianza di Michelangelo e di Leonardo, questo pittore del XX secolo, che è ora qui con noi, e che sta or ora finendo l’ ultimo affresco, il Calvario, sopra l’ altare, ha preso come suoi modelli visi di uomini viventi;  li ha studiati – ci dice – nelle osterie, nelle loro case, o mentre lavoravano con le loro falci i minuscoli appezzamenti di terreno sui fianchi delle montagne dove pu ò crescere l’ erba.
E già la fama di queste scene bibliche, con modelli presi dalla vita reale, si è sparsa un po’ ovunque, partendo da questa cheisetta di villaggio appenninico.  I visitatori hanno cominciato ad affluire quassù:  sono i primi turisti che visitano Sesta da quando l’ Imperatrice Maria Luigia pass ò attraverso il suo villaggio di montagna due secoli fa.  Per i 64 abitanti di Sesta il Medioevo pu ò cambiare improvvisamente in una nuova era degli anni ’60.